Hybris, recensione in anteprima

di La Redazione

Un’operazione insolita per il cinema italiano, una “scommessa” come l’ha definita lo stesso regista, “Hybris” è anche questo, il film che non ti aspetti.

Il tutto è insolito perché in Italia film di genere non se ne vedono spesso, abbiamo un’importante tradizione horror (i vari Argento o Bava) ma per quanto riguarda il presente risulta difficile trovare degli esempi. Ed ecco che un giovanissimo regista, Giuseppe Francesco Maione, ci prova, e alla sua opera prima, tutto sommato, ci riesce.

Il film prende il titolo da una parola del greco antico, hỳbris, che genericamente significa “tracotanza”, “insolenza” una sorta di sopravvalutazione da parte dell’uomo delle proprie forze, che lo porta a prevaricare il volere divino. Il film ruota tutto intorno a questo concetto, o meglio, i suoi protagonisti si sentono in qualche modo “posseduti” dalla hybris. È qui che sta la prima differenza degna di nota del film di Maione rispetto ai classici d’oltreoceano. Il tentativo di caratterizzare i personaggi, il non indugiare sul sangue che schizza, le motoseghe, i coltelli, le urla di terrore, ma il concentrarsi sulle relazioni, la psicologia e la storia di questi è certamente una nota diversa e interessante, anche se non mancano elementi tipici come la casa claustrofobica, il bosco, l’oggetto inanimato inquietante, quattro ragazzi in trappola e così via.

Certo, non mancano delle ingenuità nel film, ma se si considera la giovane età del regista, diciannovenne quando ha iniziato a girarlo, peraltro autodidatta, e dell’intero cast artistico e tecnico, il risultato è degno di lode.

Protagonisti sono dunque Fabio (Lorenzo Richelmy), Alessio (Guglielmo Scilla), Marco (Tommaso Arnaldi) e sua sorella Penelope (Claudia Genolini), che si ritrovano in una baita nel bosco, per volere del loro defunto amico Valerio. Valerio è una presenza, che in qualche modo ha lasciato delle tracce di sé in questo luogo angosciante, reso ancora più invivibile dalla scomparsa improvvisa di porte e finestre (metafora assoluta della mancanza di una via di fuga, anche dalle angosce interiori). I ragazzi si trovano dunque costretti a confrontarsi con gli altri e soprattutto con se stessi, con i ricordi, i segreti e i rancori del passato che emergono senza sconti, alimentati da allucinazioni e paranoie che sfociano in deliri violenti e impensabili.

Probabilmente ci sono un po’ troppi elementi, il satanismo, la possessione, l’incesto, il sovrannaturale, il mistero, le allucinazioni, anche se tutto sommato è l’elemento umano quello che emerge, nella maniera più terribile, proprio perché l’intento è di dimostrare che al di là di tutto è la tracotanza propria di ognuno dei protagonisti, a renderli i fautori delle proprie azioni e delle conseguenze.

Altre note positive del film sono certamente il fatto di essere ben girato (solo 18 giorni in teatro di posa) e di avere una colonna sonora piacevole, non invasiva né spocchiosa, del giovanissimo compositore Giordano Maselli. Anche la recitazione risulta credibile.

Insomma, magari al film mancherà ancora quel qualcosa che possa sbalordire il pubblico, ma, considerando tutte le circostanze, compresa la giovanissima età di tutti (anche quella del produttore, lo stesso Arnaldi) e le difficoltà che purtroppo s’incontrano nell’ambiente, l’inizio di queste giovani promesse del cinema lascia ben sperare.

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