La battaglia di Algeri, quando l’Italia sfiorò l’Oscar con il cinema politico

di La Redazione

 Cinema e attualità storico – politica si fondono alla perfezione ne “La battaglia di Algeri“, film che conserva la sua potenza evocativa e drammatica e che raggiunge risultati entusiasmanti quali il Leone d’oro a Venezia e due nomination all’Oscar. Una per il regista Gillo Pontecorvo, l’altra per la sceneggiatura di Franco Solinas.

La storia riguarda Alì La Pointe, un semplice ex galeotto fino al 1954 che viene conquistato dagli ideali della rivoluzione anticoloniale. Tre anni dopo è a capo del sempre più attivo Fronte di Liberazione Nazionale. Ma nel 1957 Parigi invia i paracadutisti del colonnello Mathieu, la cui repressione smantella la resistenza fino a liquidare lo stesso Alì.

Per ciò che concerne l’ambientazione siamo nell’Algeria oppressa dal colonialismo francese nei primi anni 60, una egemonia imperialista che realizza una sorta di “apartheid” tra francesi e popolo algerino.

“La battaglia di Algeri”, bocciato dal grande Indro Montanelli (che lo considerò poco più che un documentario, al punto da ritenere immeritata la vittoria a Venezia) e censurato in Francia, è un film che racconta le storie degli oppressi. Una testimonianza fortissima di un realismo che proviene dalla strada e che arriva a toccare le viscere del potere dal basso.

I meriti di Gillo Pontecorvo, malgrado le critiche dell’influente Montanelli, sono molteplici.

Il regista è in grado, sin dalla prima inquadratura, di trasportare nel nascondiglio buio di quattro giovani indipendentisti lo spettatore. Lo porta faccia a faccia con dei ribelli per vocazione,  per spirito combattivo, figli d’uno spicchio di mondo dignitoso, e depredato della sua cultura. Un mondo che lo spettatore deve conoscere.

Fino alla fine, “La battaglia di Algeri” si configurerà come un film segnato da una potente fotografia in bianco e nero. Ciò è il sigillo di autenticità conferito da Pontecorvo all’intera pellicola.

Una pellicola che racconta e si racconta.

 

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